domenica, dicembre 31, 2006

Fiore di cactus



(1969)

Oscar meritato

Film piacevolissimo, pieno di "complicazioni" tipiche del filone delle screwball comedies o delle opere teatrali di Neil Simon (autore tra l'altro di La strana coppia, con Jack Lemmon e lo stesso Walter Mathau).
Ingrid Bergman nella parte dell'assistente fredda ed effettiva del dentista (Mathau) è brava a nascondere la propria femminilità ai fini della riuscita della pellicola, mentre la giovanissima Goldie Hawn impersona alla perfezione la teen-ager apparentemente svampita ma in realtà non priva di solidi principi umani. Il tutto ambientato in un'America (quella metropolitana) al culmine della rivoluzione culturale.

Da possedere assolutamente, insieme ad altri film dell'epoca (Lasciami baciare la farfalla, Provaci ancora, Sam, Il party, What's New, Pussycat...).

martedì, dicembre 26, 2006

Casino Royale (1967)


Sir James Bond, ex agente segreto, si è ritirato a vita privata. Per mantenere alta la propria immagine, i servizi ribattezzano un gran numero di loro agenti "James Bond" o "007"... Senonché, il vecchio Bond deve essere riattivato per fare luce sulla strana moria di uomini al soldo sia dell'una parte (capitalista) sia dell'altra (comunista).


Per molti questa parodia, che può vantare un cast stellare, è puro trash; per altri un capolavoro di slapstick. In effetti, non bisogna attendersi risate a crepapelle. Semmai si sorride, ammirando molti dei beniamini di sempre: Sellers, Niven, Allen, Andress, Huston, Welles, Belmondo, O'Toole (questi ultimi due in minuscole parti, quasi appena camei)... Una storia autentica il film non ce l'ha: è solo vagamente ispirato al primo romanzo di Ian Fleming. Il produttore Charles K. Feldman, non potendo accaparrarsi i diritti sul celebre personaggio (che erano nelle mani di Albert R. Broccoli), pensò di prendersi una rivincita acquistando se non altro quelli sul primo libro e volgendo ogni cosa in scherzo, sia pure con un impiego di capitali a quell'epoca da record. Il film fu girato interamente in Inghilterra. A parte il gran numero di registi, altrettanto grande è quello degli "scrivani", tra i quali è da includere Woody Allen, il cui stile si nota - eccome! - in parecchie scene e in un paio di riferimenti (soprattutto nel finale caotico) a What's New Pussycat. Altri particolari della pellicola richiamano alla mente idee tratte da commedie di quel tempo o che verranno sviluppate in opere a venire. 


Peter Sellers e Ursula Andress

David Niven nei panni del vecchio James Bond è impeccabile. L'altro "James Bond" più importante della storia è Peter Sellers, in realtà un esperto di baccarà che viene coinvolto da Ursula Andress/"Vesper Lynd" nel complotto contro "Le Chiffre" (Orson Welles).

Dopo aver girato The Pink Panther e Dr. Strangelove, Sellers era tra gli attori più richiesti in assoluto, e ciò deve aver gonfiato a dismisura il suo ego. Per Casino Royale pretese un milione di dollari, una Bentley bianca e il controllo assoluto sul copione. Anche dopo che gli venne assegnato il ruolo più importante, Sellers continuò a comportarsi come un bambino capriccioso. La produzione decise di assecondarlo e i costi raggiunsero i 6 milioni di sterline fino al momento in cui la megalomane star decise di abbandonare i luoghi delle riprese per non farvi più ritorno. (In totale il film sarebbe costato ben 8 milioni di sterline.) La scena in cui Sellers muore è in realtà il risultato di abili trucchi in fase di post-produzione. Il comportamento autodistruttivo dell'attore inglese gli diede una fama talmente negativa che per anni fu sulla lista nera di tutte le case cinematografiche.

Tra parentesi, la scena al casinò che mostra Sellers e il suo contraente Orson Welles/"Le Chiffre" è solo frutto di montaggio. Sellers accusò l'intera squadra di venerare Welles e di trascurare lui. Tra le due stelle scoppiarono scintille già fuori dal set, e per questo per la scena in questione bisognò girare diverse sequenze che vennero poi cucite insieme. 

 


Woody Allen e Daliah Levi


Bisogna accettare Casino Royale per quel che è. Non si tratta di un capolavoro, ma non è nemmeno quell'obbrobrio che in tempi più recenti ci è stato propinato con Austin Powers (la spia imbranata interpretata da Mike Myers). Siamo negli Anni Sessanta, quasi Settanta, e i vari registi (John Houston, Ken Hughes, Robert Parrish...) hanno colto lo spirito del tempo con sequenze e scenografie "psichedeliche", oltre che con un vero e proprio esercito di splendide donne seminude (delle quali Ursula Andress, Daliah Levi e Barbara Bouchet sono solo il tridente avanzato). Pura cultura pop, insomma, sottolineata dal bel soundtrack di Burt Bacharach / Herb Alpert. Inoltre, si possono gustare Woody Allen ("Dottor Noè") nelle vesti di piccolo ebreo nevrotico, Peter Sellers in quelle di playboy e Orson Welles in qualità di grande illusionista: tre autorappresentazioni dettate più da convinzione reale che dalla natura satirica del film.

lunedì, dicembre 25, 2006

Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato



(Gran Bretagna, 1971)
Regia: Mel Stuart
Principali interpreti: Gene Wilder; Peter Ostrum; Jack Albertson; Roy Kinnear


Tratto dal libro La fabbrica di cioccolato di Dahl Roald, è un capolavoro fiabesco destinato non solo ai bambini ma anche agli adulti.

Willy Wonka è il proprietario di una fabbrica dolciaria nota per la squisitezza dei suoi prodotti. Poiché gli ingegnosi brevetti per la produzione dei dolci sono oggetto dell'interessata curiosità dei concorrenti, da anni Willy Wonka non permette a nessun estraneo di varcare la soglia della fabbrica. Un giorno viene annunciato il lancio di un concorso internazionale: le cinque persone che troveranno all'interno di una tavoletta di cioccolato "Wonka" un talloncino d'oro saranno ammesse alla visita della fabbrica.
Charlie Bucket, un ragazzo povero che vive insieme ai nonni costretti a letto ed alla madre, viene improvvisamente baciato dalla fortuna e si ritrova con altri quattro bambini davanti ai cancelli della Willy Wonka Factory, accompagnati ciascuno da un parente. L'eccentrico Wonka li accoglie e fa loro da guida, rivelandosi, più che il direttore di una fabbrica, come il gestore di un immenso parco dei divertimenti (con una montagna di leccornie, vari bizzarri macchinari e persino il tunnel dell'orrore). Naturalmente indimenticabili sono gli Oompa-Loompa, i suoi lavoratori-nanetti.
Ci sono molti colpi di scena che fanno temere per il destino del piccolo Charlie, ma alla fine prevalgono giustizia e bontà e il Nostro ottiene addirittura la fabbrica dopo un atto di gentilezza nei confronti di Wonka.



Il regista Stuart ha usato diversi trucchi e accortezze nel girare il film: per esempio i giovani interpreti non hanno mai incontrato Gene Wilder prima che lo stesso apparisse sulla porta nei panni di Willy Wonka. Il cast, al completo, non ha visto né la stanza del cioccolato né gli Oompa-Loompas se non dopo l'inizio delle riprese... Tutto questo per rendere le reazioni all'incontro più realistiche.



Il più recente film di Tim Burton (2005), con Johnny Depp, non è affatto male: ha anzi dalla sua la possibilità di sfruttare al meglio la tecnica e i trucchi col computer. E' però proprio l'interpretazione di Willy Wonka da parte di Depp a non reggere il confronto con quella - assolutamente perfetta - resa da Gene Wilder ventiquattro anni prima. Il sorriso tranquillo di Wilder non mette ansia come il ghigno isterico di Depp. Wonka/Wilder sa sempre quel che accade e si mantiene imperturbabile, lo spettatore capisce che può fidarsi di lui, mentre con l'imprevedibile e nevrotico Wonka/Depp si rimane sempre sul chi vive. Il messaggio, o la "morale", è tutta contenuta nelle parole dell'ultima canzone:


IF YOU WANT TO VIEW PARADISE
SIMPLY LOOK AROUND AND VIEW IT
ANYTHING YOU WANT TO, DO IT
WANT TO MAKE THE WORLD
THERE'S NOTHING TO IT

THERE IS NO LIFE I KNOW
TO COMPARE WITH PURE IMAGINATION
LIVING THERE
YOU'LL BE FREE
IF YOU TRULY WISH TO BE





Script originale di Willy Wonka and the Chocolate Factory

domenica, dicembre 17, 2006

Sul caso Welby

"La vita non appartiene all'essere umano": a questa assurda conclusione si è arrivati a proposito del caso Welby.
Tu sei lì sul ponte, hai già scavalcato il parapetto, con un sospiro soddisfatto allarghi le braccia e ti lanci nel vuoto a volo d'uccello (l'ultima e unica grande impresa della tua tormentosa vita), già fiducioso di avercela fatta... quando ti senti agganciare la scarpa... No! La scarpa si sfila, forse ce la puoi ancora fare... ma ti afferrano il calzino. Si sfila anch'esso... poi hanno il tuo calcagno in mano, la gamba, tutto te stesso. Ti tirano su, magari orgogliosi di sé per averti "salvato". Ti chiedono "perché?" e quando tu urli loro in faccia: "Lasciatemi morireee!" ti infilano la camicia di forza e ti richiudono in una cella imbottita, con tanto di sorveglianza speciale perché tu "non faccia sciocchezze".
Il paradosso è che la vita appartiene all'essere umano. A ognuno di noi. Non possono impedirci di farne quel che vogliamo! Se non appartiene a noi, a chi allora? Alla società? A questo convivio di strani, spietati animali che sono gli stessi che ci spinsero a volerla fare finita?


Vogliono continuare a tenere attaccato il ventilatore polmonare che mantiene in "vita" Piergiorgio Welby.
E' una vera e propria tortura senza soluzione di continuità nei confronti di una persona che soffre e non fa che ripeterlo a tamburo battente. Una "condanna a vita" senza diritto di difesa e con la complicità dei soliti medici-aguzzini e giudici dell'Inquisizione.
Ci hanno sviliti ormai in tutti i campi, depredandoci persino della scelta se continuare questa indicibile agonia o spegnerci per sempre.

sabato, dicembre 09, 2006

Dell'entusiasmo che manca

Un fantasma si aggira per l'Europa: il fantasma dell'apatia organizzata.
Molti dei nostri conoscenti, soprattutto i giovani, errano con sguardi estasiati, assenti. Hanno evidentemente i loro paradisi privati. Ci salutano con grande cordialità, felici; o, meglio, salutano i nostri simulacri, il nostro scheletro: di noi infatti non vedono altro, e possibilmente anche ciò solo dietro una sorta di griglia cibernetica. Non si interessano a quel che facciamo, se siamo felici noi, se abbiamo un lavoro o meno, oppure se anche a noi è piaciuto l'ultimo film con Johnny Depp o Angelina Jolie.
Quando tentiamo di instaurare una parvenza di comunicazione, ci chiedono se abbiamo il Microsoft Messenger; oppure: "Mi trovi su ICQ. Come? Tu non lo usi? Apriti subito un account!"

Un mio amico ha scritto un romanzo (un altro!) che, come sempre, ha dato da leggere ad amici e conoscenti. Dopo qualche tempo, incominciando a preoccuparsi perché non riceveva risposte, li ha sollecitati (via e-mail o voice fax) ad esprimere un giudizio. Finalmente hanno risposto tutti, o quasi: in maniera positiva. Cioè: hanno detto "Bello!" e "Bravo!".
Al che, il mio amico si è fatto coraggio e ha chiesto al sottoscritto di scrivergli una lettera di presentazione per gli editori.
Sarebbe la seconda in pochi mesi: una gliela avevo già scritta, per un altro suo libro, alla fine della scorsa estate.
"Ma non conosci nessun altro? Uno che sappia fare una critica decente e che abbia magari un piede dentro l'ambiente editoriale?"
La sua risposta:
"Tra i miei conoscenti ci sono persone con ben più di un piede dentro qualche casa editrice. Il fratello di un mio intimo amico, ad esempio, ha uno studio fotografico che serve la Rizzoli. E un mio cugino ha scritto per tre anni sulla rivista PC Professionale (edita dalla Mondadori) ed è in ottimi rapporti con il direttore responsabile. Ma... C'è sempre un 'ma'. Non si impegnano..."

Già. Ognuno è immerso in un bel bagno caldo di egocentrismo. Fin qui niente di strano: viviamo nell'Antropocene, dunque è giusto che l'uomo (inteso come io-soggetto) sia al centro dell'universo.

Ammesso e non concesso che un autore non possa scriversi una lettera di presentazione da sé (soprattutto quando è troppo impegnato a sfornare romanzi), perché dovrebbe prendersi la briga di farlo, quando, tra tanta indifferenza, tra tanto impassibile disinteresse, c'è ancora chi, come me, si mostra altruista, disponibile, forse caritatevole?
Ho ricordato all'amico di essere un fresatore CNC, e dunque occupato anche sul versante del "volgare" lavoro; ma ho paura che alla fine pure quest'altra lettera dovrò produrla io.

mercoledì, dicembre 06, 2006

Gli amanti del circolo polare


Un capolavoro misconosciuto

Medem, il nome del regista, è un palindromo: si legge nella stessa maniera anche da destra a sinistra. Ciò vale pure per Otto e Ana, i nomi dei protagonisti di questa splendida storia. Ana vive fedele al credo che niente è un caso, che ogni cosa è concatenata; e in effetti tutti gli avvenimenti che le accadono e quelli che accadono intorno a lei sembrano darle ragione. La ragazza ama il freddo e non è una coincidenza che, in ultimo, finirà in Finlandia, e più precisamente in Lapponia. La sua vita, a cominciare dall'età di otto anni (dal giorno della tragica morte del padre) si intreccia con quella di Otto, destinato a divenire il suo fratellastro-amante; ma sono tanti i fatti legati tra di essi, a cominciare dallo strano incontro tra un contadino spagnolo e un aviatore tedesco durante la Guerra Civile di Spagna. L'aviatore si rivelerà essere il nonno di Ana, poi emigrato in Finlandia insieme a una ragazza incontrata all'indomani del bombardamento di Guernica...

In questa coproduzione franco-ispanica, Julio Medem dimostra tutta la sua grandezza. La tenera love story tra Ana e Otto si spoglia della sua semplicità grazie ai pregevoli effetti visivi e alle complicanze disseminate lungo tutto il copione. Alcune scene, e cioè quelle rivisitate secondo un'ottica diversa, richiamano alla mente un altro bel film uscito nello stesso anno (1998): Lola corre, del regista tedesco Tom Tykwer.

La visione è raccomandata.